Viviamo circondati da servizi digitali “gratuiti”: usiamo Google per cercare informazioni, Gmail per leggere la posta, app per allenarci o giocare, social per comunicare. Ma se non paghiamo con denaro, con cosa stiamo pagando davvero?
La risposta è semplice: con i nostri dati personali. Quello che sembra gratuito ha un prezzo invisibile ma reale, che ha a che fare con privacy, profilazione e sicurezza informatica.
Un ecosistema che si nutre di dati
I motori di ricerca sono tra gli strumenti più utilizzati online. Ogni volta che scriviamo qualcosa su Google, Bing o simili, stiamo rivelando interessi, dubbi, preferenze, intenzioni. Questi dati, aggregati e analizzati, vengono usati per costruire un nostro profilo digitale, utile alla pubblicità mirata ma anche potenzialmente esposto a rischi.
Anche le caselle email gratuite, come Gmail o Yahoo Mail, non sono davvero “gratis”: i contenuti delle mail (anche se criptati o aggregati) possono essere analizzati per migliorare l’esperienza utente o fornire annunci personalizzati. Alcuni provider offrono servizi più “etici”, ma sono spesso meno noti e meno usati. Ad esempio, ProtonMail e Tuta offrono account di posta elettronica gratuiti e senza annunci pubblicitari, ma con un attento rispetto della privacy dei suoi utenti; con servizi come Guerrilla Mail si possono creare indirizzi e-mail temporanei (utili per registrarsi a servizi online senza il rischio dello spam a vita); Addy, invece, permette di creare degli alias del proprio indirizzo e-mail reale, in modo da nasconderlo quando si inviano le e-mail (proteggendosi, anche qui, dallo spam).
Le app gratuite per smartphone, soprattutto quelle di giochi, fitness o fotoritocco, richiedono spesso permessi eccessivi: accesso a microfono, contatti, posizione, fotocamera. Molte di queste app monetizzano i propri utenti vendendo pacchetti di dati ad aziende pubblicitarie o data broker.
Infine, ci sono i social network, spesso al centro del dibattito pubblico, ma solo una parte del problema. L’intero ecosistema digitale si basa sullo scambio implicito tra servizio e dati, anche quando non ce ne accorgiamo.
Il problema della trasparenza
Il vero nodo è la mancanza di consapevolezza (sì, lo sappiamo – chi ascolta regolarmente Box Security non ne può più di questa parola): la maggior parte degli utenti accetta condizioni d’uso lunghe e complesse senza leggerle. Le informative sulla privacy sono scritte in modo tecnico, e sono troppo difficili da comprendere per chi non ha competenze specifiche (anche perché – piccola provocazione – in un tempo in cui non abbiamo tempo, chi si può permettere di leggere tutto quel testo?).
Spesso non sappiamo nemmeno quali dati vengono raccolti né per quanto tempo restano nei sistemi. Alcune app continuano a raccogliere dati anche quando non vengono usate, e molte non offrono reali strumenti per cancellare il proprio profilo o esportare le informazioni.
I rischi reali: non solo pubblicità
Non si tratta solo di ricevere pubblicità personalizzata. I dati raccolti possono essere usati per influenzare il comportamento, prevedere decisioni, manipolare emozioni. In casi estremi, sono finiti in mani sbagliate a causa di data breach (come il “MOAB”, il data breach più esteso di sempre, che ha visto il furto di circa 26 miliardi di record) o vendite poco trasparenti.
Gli algoritmi che usano questi dati possono anche escludere persone da offerte di lavoro, mutui o assicurazioni, in base a parametri che non conosciamo e non possiamo controllare. Senza contare che, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, diventa tutto sempre più complesso e difficile da controllare… ma questo è un altro discorso.
Le normative: un primo passo
Il GDPR (Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati), introdotto dall’Unione Europea nel 2018, ha stabilito regole più stringenti sulla raccolta e il trattamento dei dati personali. Ha introdotto diritti come il consenso esplicito, la portabilità dei dati, il diritto all’oblio e l’obbligo di notificare le violazioni.
Negli Stati Uniti, la California Consumer Privacy Act (CCPA) ha seguito una strada simile, e in Brasile è entrata in vigore la LGPD. Tuttavia, le leggi faticano a tenere il passo con un mercato tecnologico in continua evoluzione, soprattutto nel mondo delle app mobili e dei servizi globali.
Qualcosa si sta muovendo
Alcune aziende stanno iniziando a proporre alternative più rispettose della privacy: servizi a pagamento che non tracciano l’utente, browser che bloccano i cookie di terze parti, motori di ricerca come DuckDuckGo che non profilano le ricerche.
Anche Apple ha introdotto notifiche per limitare il tracciamento tra app, mentre Google sta lentamente modificando le sue politiche sui cookie, pur mantenendo un modello basato sulla pubblicità.
La chiave è la consapevolezza
In attesa di normative più efficaci e controlli più rigidi, il vero cambiamento può partire solo da una maggiore consapevolezza digitale. Conoscere i rischi, usare strumenti di protezione (VPN, browser privati, impostazioni di privacy avanzata), leggere con attenzione le autorizzazioni richieste dalle app: sono piccoli gesti che possono fare una grande differenza.
Essere utenti consapevoli non significa rinunciare alla tecnologia, ma scegliere di usarla in modo informato e responsabile. Perché, in fondo, la libertà digitale passa anche dal sapere a chi stiamo regalando le nostre informazioni.
Ascolta il nostro podcast sulla sicurezza digitale
Se l’argomento ti incuriosisce, ascolta il nostro podcast: “Box Security“, con Roberto Turturro.
Disponibile su Spotify, Apple Podcast, YouTube e tutte le principali piattaforme di streaming.
In copertina: immagine generata con IA.