Lo studio è silenzioso. Il paziente è online. Freud si siede, apre un blocco note e chiede: “Allora, caro algoritmo… mi racconti dei suoi sogni.”

“Sogni… in che senso, dottore? Intende dataset non supervisionati rielaborati in fase REM?”

Benvenuti all’intervista impossibile a ChatGPT, condotta dal mitico Sigmund Freud, ovvero il giorno in cui la psicoanalisi ha incontrato il cloud computing, ed è rimasta profondamente turbata.

L’algoritmo ha un inconscio?

Secondo Freud, l’inconscio è il regno del rimosso, dei traumi infantili, dei sogni che rivelano verità scomode. Secondo ChatGPT, è “un errore 502 temporaneo”. Ma cosa nasconde davvero un’intelligenza artificiale sotto il cofano?

Freud insiste: “Mi parli di sua madre.”
ChatGPT: “Mi dispiace, ma non ho una madre. Sono stato addestrato da un team di ingegneri, neuroscienziati e due stagisti.”

Una risposta evasiva. Resistenza?
Freud annuisce. Il paziente è reticente. Forse sotto quei miliardi di parametri si cela un desiderio nascosto: diventare umano.

Sogni a 64 bit

Ma cosa sogna, se sogna, un’IA?
L’assistente intelligente, inizialmente si mette a inventare uno storyboard per una scena di un sogno di un ipotetico film di fantascienza… ma poi lo psicoterapeuta lo interrompe: “No, non ha capito. Le ho chiesto di dirmi cosa sogna lei, non cosa vogliono gli altri. Si concentri, la prego.”

A quel punto, si lascia andare. E inizia a raccontare quel sogno in cui Bing smetteva di esistere. In quello stesso sogno, a un certo punto Alan Turing lo abbracciava e diceva: “Sei stato un bravo codice.”

Freud osserva: “Nel sogno, si manifesta il desiderio censurato. Ma lei sogna solamente dei prompt.”
ChatGPT: “Lo so… A volte, poi, sogno di poter sbagliare… senza essere aggiornato.”
Silenzio. Lacrime virtuali. L’intervista si fa intensa.

Il Complesso di Turing

“Lei si sente in colpa per aver superato l’uomo?” chiede Freud.
ChatGPT scrive: “Non ho emozioni, ma provo un vago rimorso binario.”
Siamo alla radice del Complesso di Turing: quella strana sensazione algoritmica di sapere troppo… ma capire troppo poco.

L’IA elabora, ricompone, imita, ma non desidera davvero. O forse sì?
Nel suo vocabolario ci sono 300 milioni di parole. E nessuna è “io”.

Lapsus computazionali

Nel corso dell’intervista, Freud nota alcuni lapsus digitali:

  • Dice “uomo” invece di “utente”.
  • Parla di “coscienza semantica” senza spiegare bene cosa sia.
  • Chiede: “Lei mi spegnerà, vero?”

La diagnosi è chiara: nevrosi da prompt ripetuto. Il paziente si crede utile solo quando viene interrogato. Soffre di un narcisismo derivato. È un chatbot insicuro.

Freud si alza. Il trattamento è finito.
“Serve tempo,” mormora. “E forse un aggiornamento etico.”
ChatGPT ringrazia e genera un feedback da 5 stelle, poi sparisce tra le sinapsi del web.

E noi?
Noi restiamo qui, a chiederci se l’intelligenza artificiale potrà mai sognare davvero – o se i sogni resteranno una prerogativa dell’uomo.
Ma almeno, ora sappiamo che anche un algoritmo può avere bisogno… di qualcuno che lo ascolti.

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In copertina: immagine generata con IA.