Quando pensiamo all’inquinamento, ci vengono in mente ciminiere, automobili e plastica negli oceani. Raramente, però, puntiamo il dito contro la nostra vita online. Eppure, dietro ogni clic, ogni serie Netflix e ogni file salvato sul cloud, si nasconde un impatto ambientale reale e spesso sottovalutato.

Benvenuti nell’era dell’inquinamento invisibile: quello che viaggia via fibra ottica e si accumula nei data center.

Internet consuma energia. Tanta.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), nel 2022 l’intero settore ICT (Information and Communication Technology) ha consumato circa il 7% della produzione globale di elettricità, e la cifra è in crescita. Entro il 2030, si stima che questo numero potrebbe raddoppiare.

Gran parte di questo consumo è legato ai data center e alle reti di trasmissione, essenziali per far funzionare il web. E se pensi che “è solo elettricità”, ricorda che oltre il 60% dell’elettricità mondiale proviene ancora da fonti fossili.

Streaming: il video è il nuovo SUV?

Lo streaming video è responsabile di circa il 60-70% del traffico internet globale. Secondo uno studio del think tank The Shift Project, guardare 10 ore di video in HD può generare fino a 3,2 kg di CO₂, l’equivalente di un piccolo tragitto in auto.

Netflix, YouTube, TikTok: ogni minuto di visione richiede energia per il trasferimento dati, per alimentare i server che lo ospitano, e persino per raffreddarli. Più alta la risoluzione, più alto il costo ambientale.

Il cloud non è così etereo

Archiviare “sul cloud” può sembrare ecologico: niente carta, niente hardware in casa. Ma quei file vivono in enormi server farm, spesso alimentate a carbone, e costantemente attive, anche se non accedi ai tuoi documenti per mesi.

In media, un data center di grandi dimensioni consuma quanto una piccola città. E il numero di data center è in crescita esponenziale, spinto da aziende, pubbliche amministrazioni e utenti privati sempre più “digitalizzati”.

Criptovalute: regine dell’energia sprecata

Il caso più estremo? Le criptovalute, in particolare il Bitcoin. Il suo meccanismo di verifica delle transazioni (“proof of work”) richiede una potenza di calcolo mostruosa. Secondo il Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, Bitcoin consuma più energia all’anno di interi Paesi come l’Argentina o la Finlandia.

Questo modello ha già attirato critiche feroci: per una tecnologia che si vuole “rivoluzionaria”, il prezzo ambientale sembra insostenibile. Alcune criptovalute stanno migrando verso sistemi meno energivori (come il “proof of stake”), ma il cambiamento è lento.

Cosa possiamo fare?

La buona notizia è che non dobbiamo spegnere tutto (e ci mancherebbe, perfino in Amazzonia è arrivato Internet). Ma possiamo essere più consapevoli. Ecco qualche spunto per ridurre il nostro impatto digitale:

  • Abbassa la risoluzione dello streaming quando non serve l’HD.
  • Evita backup infiniti di file inutili.
  • Spegni i dispositivi in stand-by.
  • Pulisci periodicamente il cloud e le email: sì, anche loro “pesano”.
  • Sostieni aziende tech trasparenti sull’uso di energia rinnovabile.

Conclusione: un web più leggero è possibile

Internet non è immateriale. È fatto di cavi, server, energia e risorse naturali. L’impatto ambientale di internet è reale, ma poco visibile – ed è proprio questo il problema. Se vogliamo un futuro sostenibile, dobbiamo includere anche il digitale nella nostra riflessione ecologica.

Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di usarla in modo intelligente. Perché, anche nel mondo virtuale, ogni scelta conta.

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In copertina: Foto di JJ Ying su Unsplash